Il fango. Il rosso arenoso dei deserti sciupato nelle paludi. L’oceano e l’afa. Anyama è così, una voragine di povertà colorata d’arancione. Caotica e gioiosa, perché laggiù i rimpianti di una ricchezza rubata dalla marsigliese trombettante durante il Colonialismo, si perdono fra i sorrisi bianchi e i dialetti francesi. No, non francesi. Africani, perché privarli di quel folclore che anima l’aria polverosa della città? Che poi Anyama è tutto fuorché una città, ma una distesa di babelici villaggi accatastati senza una logica. E ammassati, mangiando la foresta pluviale che si radica ai confini del paese. Infondo è così, guardi Anyama e vedi una terra farinosa. E le baracche di cartapesta che adocchiano le ville dorate aldilà del ciglio della strada, è un controsenso, certo. Ma tutta l’Africa è un perpetuo controsenso, e non certo per colpa sua. Perché ti volti e scorgi i panni macchiati stesi in mezzo alle strade e i rumori balbettanti degli scarichi dei camion, le spezie vendute per un pugno di monete e i musicisti con gli occhiali da sole a percuotere i tamburi. Deridendo le difficoltà, pare un mondo così lontano. Paradossale.
Anyama. Oggi non esiste più, o almeno tra i registri immobiliari, perché si è fusa in un’unica miscela con il più grande centro di commercio della Nazione, Abidjan. E’ il 1987, Gervais Yao Kouassi al primo vagito vede tutto questo, che cosa può fare per sopravvivere?
Corri, Gervais. Corri. Scalzo. A piedi nudi sui campi d’erba che d’erba non sono. Con i calli che sanguinano. Con le unghie rotte. Bordò. Viola. Ora nere. Non importa, si gioca, si piange, ci si sacrifica, per un sogno. E c’era chi vendeva fazzoletti di carta agli autisti fermi al semaforo, come Doumbia, e chi lottava con una calvizia precoce. Disastro. Ma le scarpette dovevi guadagnartele, convincendo del tuo talento la scuola calcio di Abidjan, l’ASEC, l’unica di un certo carisma in tutta la Costa D’Avorio, con gol e dribbling. Rifletteteci per un attimo: milioni di bambini con gli occhi pieni di fantasia stipati in un quadrato di mura bianche, d’altronde è la fisionomia della Nazione. Ve l’ho detto, o segni o dribbli. E Gervais non segna, mai. Ma dribbla. Oh, sì che dribbla, nulla di più semplice, nulla di più rapido. Supera il primo test, passa il secondo, si sbarazza del terzo, ecco le scarpe da calcio. Ora è libero di creare il suo calcio. Dinamico. Fulmineo. Precipitoso. Sì, confusionario anche. Quando poi incanta la scorza dura di Jean-Marc Guillou, Gervais si rinchiude nella pupa e sfarfalla in Gervinho, come i più grandi giocolieri brasiliani. Lui ha la stoffa, dice Guillou. Dirà bene.
MAMMA AFRICA E IL BELGIO. Ma l’Africa non ha prospettive, perlomeno nel calcio. Pare il destino dei calciatori della Roma. Poveri in paesi poveri. Doumbia, suo connazionale, Pjanic nel Lussemburgo, Ibarbo in una Colombia che vent’anni fa nulla chiedeva al mondo del pallone. Per emergere serve altro; servono i saluti, mai facili, soprattutto per un africano, perché la loro terra d’origine è la mamma. Mamma Africa. Ma è necessario, si parte, per sé stessi, viaggiando attraverso un’onironauta, un sogno lucido, per aiutare economicamente i propri cari. E forse è addirittura quest’ultima la motivazione che spinge più di tutte un giovanissimo del continente nero ad esplorare l’estero. Tutto per la famiglia, capite? Esempi di vita. E Gervinho sale su un aereo e vola in Belgio, al Beveren, una delle tante squadre affiliate al mondo ivoriano. Si, perché è un epoca d’oro per il paese, che sforna, senza nemmeno rendersene conto a quel tempo, talenti. Veri talenti. Voglio dire, io non credo alle coincidenze, il lavoro e lo sforzo, il sacrificio e la bontà d’animo pagano sempre.
E dopo seimila chilometri, il volo di Gervinho atterra. Qui in Belgio si impone immediatamente come uno dei maggiori prospetti del calcio europeo, conquistando una maglia, celebrata al cielo da 14 reti in due stagioni. E corre, non si stanca mai, stakanovista ingovernabile. E pensare che il minatore Stakhanov è solamente mito, creato ad hoc dal Comunismo sovietico, facile comprendere le motivazioni. Ogni mattina l’Ucraina si sveglia guardando la statua eretta in suo onore, e mi piace pensare che un giorno anche Gervinho possa avere la sua scultura ad Anyama. D’altronde laggiù è un mito. Ma un mito vivente. Reale. Tangibile.
Concreto.
Concreto come il suo sorriso contagioso.
Il Beveren è una società troppo compressa per ingabbiare lo spirito libero della gazzella, e lo cede al Le Mans, ed è solo l’inizio dell’idillio con Rudi Garcia.
LE MANS E RUDI GARCIA. Pensate ad Holly e a Roberto Sedinho, se avete presente il famoso cartone animato giapponese. Ecco, Gervinho e Garcia sono la figura retorica dell’antonomasia, ma all’inverso. Perché tra loro c’è stupore. Che diventa stima. Che si trasforma rapidamente in ammirazione. L’uno diventerà la fortuna dell’altro, e sono i pezzi del puzzle che si completano dopo anni e anni di ricerca infinita del tassello mancante. Il Le Mans è una formazione debole, va detto, che naviga tra la Ligue 2 e la Ligue 1, dove affoga prima ancora che il girone di ritorno possa realmente galvanizzarsi. E Gervinho non segna nemmeno molto, abbassa sensibilmente la media realizzativa. 2 gol la prima stagione, 8 nella seconda. Non molti, vero, ma è fondamentale capire ciò che si cela alle spalle. Il Le Mans arriva nono a fine campionato; è il miglior risultato della storia del club, e questo si è palesato proprio con Gervinho e Rudi Garcia. Vedete, io non credo alle coincidenze.
NEL DESTINO, LA FRANCIA. Nella vita, qualcosa di storto accade sempre. Che sia una delusione, un imprevisto, una sconfitta, poco importa. Accade. Quando Gervinho calcava i campi dell’ASEC gli ronzava attorno un altro francese, dal sorriso malinconico e sapiente, che periodicamente prenotava un aereo privato da Londra in Costa D’Avorio, e che rimase affascinato dalle sue doti. Folgorato. E’ Arsene Wenger. Che cosa vuoi dire a Gervinho? Fissate gli occhi e scuotete le spalle ad un ragazzo di 17 anni, senza un soldo in mano, con un futuro pressoché inaridito come i granelli del Sahara, e prospettategli una carriera inzuppata dai calici di champagne. Pagati dall’Arsenal, in un vita che si trasforma in un gioco patologico, morboso, ossessivo.
Ideale. Perché poi a questo si ridurrà l’ombra anomala del tecnico francese.
Tra l’altro, non è nemmeno un caso che Wenger si trovi proprio in Africa, perché fra la squadra londinese, il Beveren e l’ASEC si instaura un bieco giro d’affari su cui poi indagherà pure la Fifa. Passaporti falsi, chiaro. Recoba, Dida, Luciano o Eriberto come preferite chiamarlo, i casi si perdono tra gli scaffali delle procure. Ma questo è un altro discorso, perché ciò sfiora solo lievemente la carriera di Gervinho, la quale invece si intreccia sempre più con la Francia, si sa i ponti sono duri a tagliare.
E non verranno mai tagliati.
So che Wenger mi segue da quando ho 17 anni; lui è un grande allenatore, e quando un allenatore dimostra di apprezzarti, questo ti da fiducia necessaria per giocare a livelli migliori. Questa è una frase, raccattata tra una mezza intervista e l’altra, che spesso rimbomberà nei timpani di Gervinho, perché fondamentalmente in queste due righe si potrebbe riassumere il percorso e la vita dell’ivoriano.
Fiducia.
Non basterebbe altro, dico.
Wenger lo coccola. Wenger lo apprezza. Wenger lo ricoprirebbe di fiducia all’Arsenal. Il condizionale rimarrà però tale, niente da fare, Gervinho si trasferisce al Lille, allenato da Rudi Garcia, ricordate? Il mentore. E’ la molla, la scintilla, il congegno a scatto. Clic. Esplode. Gervinho sforna 21 assist spartiti in due stagioni, condite da 18 reti ciascuna, per un totale di 36 finalizzazioni fra tutte le competizioni disputate con la maglia biancorossa. Domina il campionato, assoluta rivelazione. E per un breve attimo sfregia la scultura del miglior giocatore africano di quel decennio, Didier Drogbà, rosicchiando il gomito dell’ambito premio, ma sfuggito per un’unica, semplice, causa. Drogbà gioca al Chelsea, Gervinho al modesto Lille. E questa volta sì, il sogno del nero bambino stempiato trova contatto con il mondo reale.
Wenger.
Gervinho.
Il connubio franco-ivoriano trova soddisfazione nell’Arsenal.
Hai corso, Gervais, ce l’hai fatta, gli dirà Guillou.
FANTASMI E OMBRE DEL PASSATO. Questa non è una storia a lieto fine, e come potrebbe esserlo, d’altronde la fiducia non c’è realmente mai stata. All’ASEC e al Beveren, al Le Mans e al Lille, la faccia stanca ed annoiata di Wenger ha perso improvvisamente le sue rughe, come Boston George quando con la voce rotta fuori campo parla a sé stesso, che poi è il fantasma che insegue tutti noi. Sarebbe da stupidi, non credi? Passare una vita intera a desiderare qualcosa senza mai agire. Wenger ha avuto le possibilità di prendere per mano il giocatore ed allevarlo a Londra, ma ha sempre desistito. E i cliché romanzati delle favole non sopravvivono oltre l’ultima pagina sfogliata, evidentemente.
Gervinho è Rosso. Di maglia, di cartellino, di rabbia. C’è tutto nella prima partita ufficiale del nuovo Arsenal, che riceve all’Emiretes Stadium il Newcastle. Doveva essere una festa, di quelle che solo il pubblico inglese sa regalare. Ma l’ivoriano cade tra le mani non docili di Burton, innescando una selvaggia reazione. Blow, colpito, tre giornate in tribuna.
E’ la molla, la scintilla, il congegno a scatto. Clic. Implode. Irreversibilmente. Sfigura e s’arriccia in figuracce, compresso in un quadrato limitato del campo come una gazzella dentro la gabbia. Palla a terra, pochi tocchi, ripartenze letali, questo vuole Wenger. Ma questo non lo può offrire Gervinho, non è nelle sue corde; lui chiedeva semplicemente di creare il suo gioco. Capite? E’ la storia di un nero bambino stempiato prima sedotto e poi abbandonato da chi più di tutti gli altri credeva nel suo talento. Ed è quasi se il muro delle certezze che ciascuno di noi ha, sia crollato in cocci ridotti a granelli. Granelli come le dune del Sahara, perché in fondo a Gervinho non rimane che un pugno chiuso di speranze vuote che scivolano via nel nulla di un mare di sabbia.
RUDI E LA ROMA. Ectoplasma. Questo è stato l’ivoriano nei due anni trascorsi nella capitale britannica. Rari i gol, ancor meno gli assist e i dribbling chissà. Non c’era più niente di Gervinho, completamente soggiogato dalla sfiducia, perché a scendere in campo ogni Sabato, ogni Domenica, ad ogni allenamento, non era lui, ma la sua nemesi.
Corri, Gervais, corri.
A Roma.
C’è Rudi Garcia che ti aspetta. Sai, è sempre rimasto lì, nascosto fra i cespugli a fiutare l’evolversi della situazione e captando qualsiasi variazione nell’aria. E non è una contraddizione dire ora che c’era qualcuno che credeva nel talento grezzo ed animalesco della gazzella più di Wenger. Perché l’errore è quello di fossilizzarsi solo e soltanto verso un unico binario.
Io non credo alle coincidenze, e per la terza volta Rudi sfiora, con i palmi callosi e zeppi di rughe di chi ha mano gli anni, le guance di Gervinho che sorride a denti bianchi come solo gli africani sanno fare.
E’ la gioia, descritta a gesti. E’ l’Africa, autoctona e civilizzata in due secoli di storia. E’ l’ossimoro della povertà, ricca di folclore e spoglia di lusso. Questo è Gervinho, la gazzella dalle mille contraddizioni.