Il lato artistico di Jeremy Menez è scritto nella sua provenienza, nato e cresciuto nella Banlienue 94, una tra le vie di Parigi più dure, tra rap e violenza contrapposti ad amici ed affetti. Il senso di appartenenza lo porta tutti i giorni sulle spalle, non a caso ha scelto il 94: “È questo il mio numero con cui voglio giocare, io sono nato nella banlieue parigina 94, questa è l’unica ragione.”
Sono in molti gli artisti che hanno trovato le chiavi del mondo partendo dalla periferia, anche la più estrema e dura. Jimi Hendrix passò l’infanzia in un quartiere disagiato di Seattle. Charlie Chaplin nella periferia suburbana di Londra. Cassano è nato e cresciuto tra le bellezze e le durezze di Bari Vecchia.
L’estro di Menez, poi, è diventato una condizione esistenziale: siccome giocare a pallone come fanno quasi tutti gli risultava troppo noioso, del mestiere di calciatore Menez ha voluto farne un’arte. Se non avesse scelto il calcio, forse sarebbe diventato un ballerino: per la grazia con cui si muove quando è ispirato, per l’armonia che il suo corpo trova con il pallone in certe splendide serate. Ovvio che, come tutti i geni, non possa andare fuori dall’ordinario tutte le sere, che altrimenti diventerebbero tutte ordinarie e nessuno si stupirebbe più. E Menez, invece, vuole stupire. Cosa che, forse, lo appaga anche più della celebrità.
Come tutti i geni, inoltre, Jeremy fa quotidianamente i conti con la sua sregolatezza, non quella deleteria delle rockstar, ma quella abulica dei calciatori, quando vagano per il campo come intontiti dal sonno. C’è stata poi, anche per lui, la questione del conflitto interiore: della guerra ai fantasmi, della lotta con i suoi demoni, che forse sabato sera ha definitivamente vinto. Libero, finalmente, di ballare sulle punte. Di carezzare il pallone. Di sciare tra gli avversari. «Mi piace dribblare per il puro gusto di dribblare e umiliare gli avversari», disse in una memorabile intervista ai tempi del Monaco. Per questo usa aggirarli come paletti.
Tratto da: Gazzetta dello Sport