FOCUS ON. Miralem Pjanic, il cristallo di Roma


La storia di un uomo, bosniaco, figlio della guerra. Cruenta. Sanguinosa. E la carriera di un calciatore, ancora ragazzino, ancora troppo giovane per pensare ad futuro nello sport. Due poli opposti, che si intrecciano, che si scontrano, violentemente. E nel mezzo, il frastuono, continuo, delle bombe che imperversa su tutta la terra slava. Pensare che solo mezzo secolo prima, Sarajevo era il teatro tragico della follia umana, con Francesco Ferdinando assassinato a colpi di pistola. E poi c’è Tuzla che, fra le macerie di case popolari distrutte e di tetti frantumati, è la patria di Miralem Pjanic. Una città fondamentalmente storica, un concreto dipinto ad olio su tela del mondo arabo e del mondo cristiano. Ma le guardi e sono opere sfregiate. Sì, perché là le urla e i dolori e i pianti soffocano le bellezze saracene e romaniche, e i colori si sbiadiscono nel piombo dei proiettili. Al primo sguardo Tuzla sembra Amsterdam, la città del Cigno di Utrecht. Lui, che con la sua classe, la sua eleganza, riusciva a volteggiare sulle punte, come fosse un ballerino di danza classica. E lo era. Un’opera d’arte moderna. Concedetemelo, il parallelismo con Pjanic non sarà solamente una coincidenza.
Ma Miralem ancora piange e singhiozza, scaldato fra le braccia di mamma Fatima. E’ romanzesco l’aneddoto che lo porta in Lussemburgo. Il padre, aspirante calciatore del Drina Zvornik, un’onesta squadretta di terza divisione, chiese per ben due volte i documenti necessari per il trasferimento. Invano. Dalla guerra non si scappa. Si soccombe, impotenti. E se il destino sembra segnato, in realtà non lo è mai. Qualcosa cambia. Un miracolo, per i miscredenti. Dio, risponderebbe Fahrudin, ferreo musulmano qual è. E allora il lamento sofferente del piccolo genio bosniaco commuove la scorza dura dell’ufficiale della dogana, però eroe per la famiglia Pjanic.
E partiranno.
Zvornik, dove nel frattempo si era trasferita la famiglia, sarà poi la seconda città invasa e demolita dalle forze paramilitari serbe. Dove sono le Moschee? Dov’è finita la popolazione bosniaca? Il silenzio degli innocenti – e sì, potremmo pure pensare ai bellicosi serbi come l’immagine di Hannibal Lecter, il serial killer schizofrenico. Ecco, ma molti, molti, di più. Un esercito – massacrati, umiliati e deportati nei campi di concentramento, come bestie. La famiglia Pjanic ci tornerà a Zvornik, ma solo nel 1996, quando ancora i carrarmati statunitensi bloccavano le strade, nonostante il conflitto fosse finito. L’ossimoro della patria riconquistata, ma fondamentalmente persa.

IL LUSSEMBURGO E IL METZ. Qui il calcio non ti fa vivere, né ti sfama. Gli stadi, sempre che di stadi si possa parlare, non si riempiono. Mai. E allora Fahurdin deve rinunciare alla sua passione, al suo calcio. Ma lo fa per il bene della famiglia, che in qualche modo deve sopravvivere. E intenzioni così genuine sono sempre ripagate. La vita infatti lo ricambia con un bimbo prodigio. Voglio dire, in una quotidiana mattina di mezza estate, Miralem prende un pallone da calcio e comincia a palleggiare. Senza motivo. E con mille motivi nasce una storia d’amore, e non si staccherà più da quella palla in cuoio. Sempre incollata al piede, come un magnete. O come una colla – almeno così dirà Maurizio Compagnoni in una rete che di magico deve aver qualcosa di un Roma Milan 2 – 0 –.
Passerà all’FC Schifflange, squadretta lussemburghese, e sempre sotto gli occhi vigili, inflessibili, fermi del padre. E ancora oggi, sul giardino dell’Olimpico, lo si può scorgere Fahrudin, appena sotto la Tribuna Stampa ad osservare la classe del suo vero orgoglio: il figlio.
Ma il Lussemburgo comincia a stargli stretto, il talento è talento, e come tale ha bisogno di grandi palcoscenici. L’estero lo chiama. Un altro trasferimento. In Francia, a Metz.

Un commentatore francese dirà, qualche anno più tardi, c’è qualcosa di Messi in questo gol! Il talento cristallino di Pjanic sta sbocciando lontano dal centro caotico di Parigi o dall’affollamento di Lione. Il Metz lotta per non retrocedere. E’ una squadra grintosa. Affamata. Serrata. Esordì contro il PSG. E’ il debutto dei sogni, a 17 anni. A fine stagione saranno 38 le presenze fra tutte le competizioni, condite con 5 reti. Una di queste rimarrà indelebile nei ricordi di Miralem: sombrero e dribbling secco sul portiere. Ma il Metz era solamente una squadra di provincia, senza nemmeno troppe pretese. E retrocesse. Per Pjanic è un duro colpo al cuore. E’ malinconico. Affranto. Si era realmente affezionato alla squadra, ai compagni, alla città.
A tutto.
Ma il Lione piomba su di lui. E se lo porta a casa.

LIONE. A Lione arriva come un ragazzino, ne esce uomo. Umile. Maturo. Il 2008 gli regala la prima gioia: la nazionale bosniaca. A lui, che di fronte all’offerta francese, disse: Giocherò con la Bosnia, e spero che la nostra nazionale possa portare un po’ di gioia alla nostra gente che ha tanto sofferto. Con orgoglio, e il cuore davanti a tutto. Nell’era dominata dagli agenti, iene predatrici nella savana, ancora c’è qualcuno che dice no. Che si aliena da una realtà capitalista, commercialista. L’uomo, prima di tutto. E l’onore.
Poi, la consacrazione e l’amore che fiorisce. Al Santiago Bernabeu, teatro delle meraviglie, contro i campionissimi del Real Madrid. Lo stadio gremito e confezionato a festa ammira involontariamente il suo genio, il suo estro, la sua danza. Un mancino di controbalzo che spedisce all’inferno Pellegrini, manager dei blancos. Sarà un pareggio il risultato finale. Ma tant’è, è il Lione a passare ai Quarti della competizione. Ringrazia Miralem, con le braccia al cielo, verso lo spicchio di tifosi accorsi, numerosi e speranzosi, nella capitale spagnola. Ma le luci di Madrid si spengono, poi anche quelle di Lione. Gourcuff eclissa lentamente il bosniaco, sono incompatibili. Lione, dopo averlo coccolato ed idolatrato, rischia ora di tappargli le ali, spiegate verso la vittoria. E allora c’è la nuova Roma statunitense, che si assicura il talento slavo. All’ultimo giorno di mercato, all’ultimo respiro. Il colpo. Un americano e un bosniaco a Roma, insieme, come fosse un film di Sordi.

ROMA. Questa è storia recente, fra l’idillio con Luis Enrique, uomo squisito, e un rapporto burrascoso con Zeman. Rispettat, sì, ma mai amato, il secondo. E poi Garcia, terzo allenatore nel giro di soli 3 anni. Si capiscono, si intendono e si apprezzano. L’uno diventerà la fortuna dell’altro. Garcia sceglierà Pjanic, e non Lamela, vittima sacrificale di una stagione sfortunata. Vincerà la sua scommessa. Perché Miralem diventerà il faro del centrocampo giallorosso, maestro di eleganza e qualità. Un ballerino, sul campo. Un po’ come Van Basten. Per chiudere il cerchio.

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