L’Est europeo è una zona franca, grigia, vittima di pregiudizi comuni che si concentrano tra le parole annebbiate di chi l’Est europeo non l’ha mai realmente visitato. Pochi passi, e t’accorgi che è una terra estremamente discussa, controversa, che ancora fatica a sotterrare le armi. Il Passato qui è inciso a pelle sulle braccia di ogni abitante, e non si può cancellare ciò. Ciò che invece rimane nascosto è il suo carattere cosmopolita, perché se ogni cosa può essere ridotta ad una sola parola, questa racchiude pietra e figura di Novi Pazar, sconosciuta cittadina della Serbia, ma che incarna pienamente il trascorso complicato di queste lande abbandonate al proprio destino.
Qui, come in tutta la nazione slava, respiri quel profumo demodé della Storia, con tutto ciò che essa ne comporta. Guerra e Pace, perché senza una guerra una pace non può sopravvivere. E accade allora che a scolorare le navate della Chiesa Ortodossa di San Pietro, c’è l’Hammam e la Moschea Altun Alem. E’ l’islamismo che si confonde con il cristianesimo più radicale in un conflitto che è solamente umano, ideologico e che le pietre mai possono cercare, immobili nella loro fotografia istantanea. E nel mezzo, in una calma solo apparente, c’è il Monastero di Sopocani, dedicato alla Santissima Trinità Cattolica. Questa è Novi Pazar. Questa è la patria cosmopolita di Adem Ljajic.
LA GUERRA, FRATRICIDA ED IRRAZIONALE. E’ una città dove inevitabilmente si mescolano culture, costumi, folclori diversi, che danno risalto all’immaginazione straniera e all’orgoglio autoctono. Tutto questo, però, rischia di implodere in migliaia di schegge. Inevitabile, è la guerra fanatica delle Religioni – non della cultura. Quando Adem non canta l’inno serbo, è perché la religione fa da muro. Sono battaglie su battaglie. Ed è quello che è successo poi con le Guerre Jugoslave dei primi anni Novanta di un secolo martoriato dagli scontri bellici. Maschere che si mettono e maschere che cadono, qual è stato il vero scopo della guerra. Eppure l’eredità lasciata da Tito nel 1980 fiorisce in una rigogliosa serenità nei primi sei anni. Poi però si innesca una veloce destabilizzazione del Paese che porta ad una precoce dissoluzione della Nazione.
Caos.
Armi in mano e formazioni a testuggine. Fischi assordanti. Bombe. Viste annebbiate. La guerra è civile, che è ancora più cruenta, fratricida. Uomini che parlano la medesima lingua, si ammazzano. E raramente vengono salvate donne e bambini dalla furia cieca. Per anni quella parte di mondo ha chiuso gli occhi e ha sparato. Ancora.
E ancora.
Ma la famiglia Ljajic non scappa, anche perché nel 1991 Novi Pazar rimase fuori dall’epicentro del conflitto, non come Zvornik, la patria di Miralem Pjanic, demolita prima dalle mitragliette serbe, e poi dai carri armati americani parcheggiati ai lati delle strade. E’ paradossale pensare alla patria riconquistata, ma fondamentalmente persa.
Ljajic intanto cresce nel silenzio della paura. Soffre. Trema. Si, perché basta una scintilla per scatenare una rivolta anche qui, a Novi Pazar, in un paese sostanzialmente neutrale. Una scintilla che rischia di accendersi nel 1998, quando gli americani sorvolano i cieli di Novi Pazar, scagliando granate sui fragili tetti della città. A terra, tutto espolode. Il Paese che cade in ginocchio. E i frastuoni dell’angoscia che non cessano. E tutti rintanati in casa, sotto le finestre per evitare i proiettili.
L’angoscia di vivere, la paura di morire. L’adulto, che non comprende ciò che la fuori accade, come può trovare le parole per spiegare ad un bimbo, i cadaveri a terra dei suoi amichetti dell’asilo. E’ folle crescere con la morte che scorre nelle vene, perché così è. Proprio come a Zvornik, proprio come se i destini di Pjanic e di Ljajic si fossero intrecciati già nei loro primi mesi di vita. Sono un po’ nervoso, non emozionato. Le bombe americane che mi sono cadute in testa in Serbia quando avevo sette anni, mi rendono freddo e impermeabile verso tutto. Non ho paura di nulla, adesso – così disse Adem in un’intervista rilasciata prima di Fiorentina – Roma. Già, la freddezza e l’impermeabilità che lo hanno cresciuto e formato come uomo, prima ancora che come calciatore. Poche parole, poche gioie, molta maturità. Se penso a Ljajic, penso alla vita metaforicamente ridotta ad un calcio al pallone, che in un pallone però trova la forza di sorridere alle mitragliette.
IL PARTIZAN DI BELGRADO. A 14 anni Ljajic lascia quella Novi Pazar che tanto lo ha formato e costruito caratterialmente, per accasarsi a Belgrado. Il Partizan è rimasto infatuato dal suo talento con la palla fra i piedi. Tecnica e dribbling, svolazza tra i difensori come fosse la cosa più semplice al mondo. E cresce nel mito di Kakà, assumendo sempre più le sembianze di un trequartista atipico con l’inclinazione al gol.
Belgrado, si sa, non è una città calma e pacata. Qui c’è il derby dei fuochi – ma quelli veri. Lo stadio incendiato, la bolgia che comprime ed opprime. Soffoca. E Ljajic ne giocherà alcuni. Come possono allora tremare le gambe ad un ragazzo, che ha già vissuto più di molti quarantenni in carriera, di fronte ai fischi di qualche migliaia di tifosi inferociti? Freddo ed impermeabile.
Per quella volta.
Per tutta la vita.
C’è tempo anche per le prime braccia alzate al cielo. Nel Novembre del 2008, infatti Ljajic esulta per la prima volta fra i professionisti. Il primo gol non si scorda mai, dicono. L’OFK Belgrado è la vittima sacrificale dell’iniziazione del talento serbo, che si diverte fra i primi sorrisi velati. Ma l’Europa lo scruta, lo osserva, infine se ne innamora. E Belgrado comincia a stargli stretto. Una nuova tappa, un nuovo trasferimento. Firenze.
LA FIORENTINA. Burrascoso. Conflittuale. Tempestoso. Questo è il rapporto con la Fiorentina. Una prima mezza stagione – da Gennaio a Giugno – passata a studiare il calcio italiano, i suoi movimenti, la sua tattica, e poi una prima parziale consacrazione. Gioca bene, si sacrifica per la squadra, ma sempre con quel viso un po’ imbronciato, un po’ triste. Testardo e capoccione. Quasi fosse nostalgico, e probabilmente lo è. Crede che la felicità si sia scordato di lui, ma in realtà si è nascosta in qualche cassetto. Solo che lui ancora non lo sa.
Ci sarà spazio in quella stagione per qualche gol, qualche giocata, ma nessuno riesce ad inquadrare bene Ljajic, schizofrenico nella sua genialità, e capita allora che nel terzo campionato disputato a Firenze sprofonda nell’agonia della tribuna.
Caos.
Lo capite? Ritorna il caos, quella battaglia interiore che non si placa, tra il pungo di Delio Rossi e la rissa da strada. Esonerato l’allenatore, fuori rosa lui. E Adem avrà il tempo di segnare una sola rete in campionato, sostanzialmente inutile. A quei tempi, guardavi Ljajic e non potevi non notare come una carriera costellata da lampi di genio, rischiasse di frantumarsi contro un muro – non più religioso, ma solidamente mentale.
Ma cosa pretendi da chi dovrebbe essere ragazzo e invece ragazzo non è, da un uomo che ha finito di maturare sin dal 1991.
La stagione successiva, la Fiorentina si affida a Montella, che stravolge i piani di mercato della società viola. Scocca l’amore. Ljajic segna a raffica, diventa il punto focale della squadra, tutti lo cercano e lui cerca tutti. E Ljajic è felice. Si sente finalmente apprezzato, e probabilmente è la prima volta che uno stadio intero lo inneggia. Non una Domenica, non una partita. Ma per tutta una stagione.
La società non vuole più venderlo, ma un centinaio di chilometri più a Sud, la Roma ha ceduto Erik Lamela per una trentina di milioni. Urge un sostituto. Ljajic arriva a Termini, in treno. E’ pronto per il definitivo salto di qualità.
LA ROMA. A Roma entra e segna. Prima partita, primo gol. Garcia lo adora, intende farne il nuovo Hazard. Ma la stagione sarà condita da alti e bassi, da gomitate, pedate e stincate che prende giornata in giornata, e da pochi gol che svaniranno in prestazioni incolori, opache. Malinconicamente tristi, a volte. I gol saranno solamente 6 a fine stagione. La piazza romana pretende di più, è capace di riempire uno stadio solo per te, ma di portarti anche nel limbo dell’Inferno.
Ljajic oggi ha scelto la prima strada, perché qualcosa, dall’Estate del 2014, cambia, forse nella testa del giocatore, che si convince delle proprie potenzialità. Diventa il titolare della squadra. E così si trasforma Ljajic, dal bimbo serbo con la morte che fa da ossigeno nelle vene, in un giocatore imprescindibile. La scorza dura e la faccia imbronciata, che non spariranno mai, ora però mascherano la gioia della sopravvivenza. Dalle bombe. Dalla guerra. Non saranno dei fischi a farlo cadere. Non saranno i morsi sulle caviglie a farlo piangere. Troppa sofferenza nel suo passato, perché Adem ora corre, con il pugno alzato. I compagni lo strattonano. Urlano. Roma svezza il talento cristallino. E Ljajic è in curva. La maglia numero 8 non ha solo segnato. Ha convinto. Ha vinto la sua partita più grande.