I numeri sono solamente la metà di questa storia che ancora si sta scrivendo. E di numeri in questa storia non ce ne saranno. Infondo, scrivere un pezzo su Daniele De Rossi è selvaggiamente riduttivo, e probabilmente le parole saranno qui un limite. Perché la sua carriera, melanconicamente costruita su castelli di rabbia, non conoscerà mai un lieto fine, è il destino di chi viaggia lungo una ferrovia infinita, tipo Dann Rail. Nessun punto d’arrivo, nessuna gloria eterna.
Eppure lui l’ultimo saluto, non l’ha mai dato.
Per sempre De Rossi vivrà così, costantemente sotto un’esame che non potrà mai superare a pieni voti, perché una fetta di tifoseria già l’ha troncato. Lui divide, spezza, rompe. Che sia la ripartenza avversaria o l’immagine crepata ed incisa a pelle come uno dei suoi tatuaggi colorati sulle menti buie dei tifosi, poco importa. E’ un contrasto di colori, sì. De Rossi lo è. Pendola tra il rosso della passione, dell’amore, della foga, della collera al nero cupo dei passaggi a vuoto, degli affanni, delle difficoltà che di calcistico possiedono ben poco. Nulla.
Vedete, lui è Daniele De Rossi, figlio di Roma, mio capitano dell’AS Roma.
Rare volte si lascia andare ad interviste che toccano il personale, e fra queste c’è una frase che rispecchia pienamente la sua onestà. L’equilibrio interiore è ciò che porta ogni uomo ad affrontare a testa alta ogni vicissitudine. E Daniele vorrebbe urlarlo al mondo come se fosse il suo vanto; si ritrova invece a sussurrarlo con la voce rotta in uno studio televisivo. Questa voce spaccata dai drammi e dalle sofferenze, dalle sconfitte e dai veleni ingoiati. Daniele scricchiola, è logorato, il suo viso è stanco. Implode dentro di sé in mille schegge che perforano la sua veracità romana e romanista. Non vive nel palazzo dorato dei calciatori, sembra quasi un corpo estraneo. E forse lo è, perché ha il coraggio di rimanere in silenzio, e in quelle rare volte che non lo fa, sputa sangue. Sputa Vero. Ma il mondo gira così, non c’è redenzione per quelli come lui, la piazza fa da giudice.
Colpevole.
E le urla e le stime d’affetto che romperebbero quel muro d’ombra creato appositamente dai papponi, si perdono in un ambiente che ormai non gli appartiene più. Voglio dire, Daniele De Rossi incarnerà ancora per molti decenni lo spirito romano, autentico, schietto. Purosangue. Ma l’equilibrio tra figlio di Roma e calciatore della Roma, s’è incrinato. Irreversibilmente, perché in tanti non lo vorrebbero mai più vedere all’Olimpico.
Ed è giusto, non si possono negare le amnesie che troppe volte lo hanno decimato in questa stagione sportivamente orribile o i respiri trattenuti all’ennesimo cambio di gioco regolarmente regalato ai raccattapalle. Non si può, è la sua personale storia, tatuata nella schiena, e che pesa come un fardello. Gioca tremendamente male, chiariamolo. Tuttavia questo non sarà mai un elogio al calciatore, discutibile nell’ultima parte di carriera, ma all’uomo. L’uomo dipinto a pastelli grigi da cinquantamila voci cantanti nel derby, questo è il mio vanto che non potrai mai avere. A memoria, come a scuola. Poesia vivida, aspra. Cruda.
Esattamente come lui, simbolo della vena sopra al collo pronta ad esplodere. La rabbia imbevuta di inchiostro che scorre nella giugulare, è ciò che di più vero ha.
Ha lui.
Abbiamo noi.
Perché se devo credere in qualcosa, credo nella foga ansiolitica di De Rossi. Nient’altro, sebbene tutto appaia dimenticato.
Ma prima o poi i fantasmi di una vita estranea al mondo del pallone che non ha chiesto, che non ha preteso, ti sbattono la porta in faccia. E lì allora tutto si perde, chi è Daniele? Immaginate vivere da Daniele De Rossi, essere cioè l’epicentro caotico non di una squadra, ma di un’intera città che opprime, soffoca. Illude, a volte. E tutto va giù, tra mugugni, offese e chiacchiericci fastidiosi. Capitan Ceres e i tagli da coltello nascosti dalla barba.
E’ la fine, dicono. Non per me, non lo abbandono nel momento più critico.
Poi c’è il Franchi. Ricordate? Di quella sera di Firenze rimane una sola un’inquadratura, seghettata, rapida. Unica. Sono i suoi tormentati occhi bordò, persi nello sconforto interiore di chi sa che la sua faccia sarà esposta alla gogna. Non è il Medioevo, ma ci siamo quasi. E’ il martire di oggi, ma anche quello di ieri. Carne da macello. E questo Daniele De Rossi non lo merita affatto.
E’ il mio capitano.
Core verace di Roma.
Perché infondo una Roma senza De Rossi, io proprio non la immagino.