Il derby del sole

Roma-Napoli-Ancelotti-Maradona
Mi sono sempre chiesto che cosa sia realmente il derby del Sole, quel Roma – Napoli che mostra il cuore più vivido e ricco della penisola italiana. Tra il mare e la sabbia c’è quel Sud palpitante, dialettale, a volte esuberante, che diventa campo da gioco di un derby che non è quello grigio e cupo milanese. Che non è quello freddo e monotono torinese. E’ invece il derby dei colori, caldi e freddi mescolati assieme. Del tifo torrido. Di due popoli tanto simili, quanto orgogliosi delle proprie origini. Della propria terra. Dei vessilli che sventolano sui torrioni delle città. Come il Tevere e il Vesuvio, pezzi di storia fin troppo spesso infangati dall’odio irrefrenabile, più che dalle parole gettate al vento dai tifosi. E non solo.
E’ la Storia, abbandonata.
Dimenticata.
Eppure c’è un legame storico che attrae Roma e Napoli lungo un sottile filo conduttore, aldilà del calcio, dello sport, delle chiacchiere da bar. Ma che muore nelle mani di assassini. Di ultras insoddisfatti della propria vita – quella reale – che altro non hanno che sfogare i propri disagi nella violenza gratuita. Ed ecco come botte su botte e lividi neri si trasformano nell’epicentro della felicità persa in un bagno di sangue. Simbolo di un mondo malato che si frantuma in mille cocci di vetro.
E queste sono scaglie che fanno male, cicatrici scolpite dentro al petto. Solo sconfitte per il mondo del calcio.

COS’E’ ROMA – NAPOLI ? Me la immagino Roma – Napoli. E me la immagino come tutta una sfumatura di colori tinti sui volti di uno stadio gremito, felice, in piedi, e che dà quella voglia di abbracciarsi l’uno con l’altro. Cantare perché si ama la Roma, non perché si odia Napoli. Ma questo è derby è anche il paradosso dei colori, che qui macchiano una Domenica che Domenica inevitabilmente non può essere. E che non sono il giallo e il rosso, il bianco e l’azzurro. E’ il nero dei passamontagna. Delle pistole. Della morte.
L’odore acre della polvere da sparo.
Cadavere a terra.
E questo è il momento in cui il dolore per la morte riacquista corpo e figura, martellando la testa di dubbi e incertezze. Che cos’è diventato il calcio?

Chi ha qualche anno in più lo capisce bene, perché quando Mao Tse Tung e Tito liberavano involontariamente i propri paesi dalla tirannide, l’Italia calcistica ancora era dominata dalla tirannide, e non importava chi, fra Roma e Napoli, vincesse contro le potenze strisciate. Vinceva la Roma, si gioiva. Vinceva il Napoli, si gioiva. Insieme, con Maradona ed Ancellotti che lottavano non per ammazzarsi, ma per conquistare ciò che meritavano. Perché quelle partite erano l’inno alla vittoria, ma non dei più deboli. C’era qualche giornalista ben pagato che tentava a far passare questo messaggio, però nessuno in realtà poteva solo pensare che Roma e Napoli fossero solamente dei fuochi di paglia. Diciamolo, quella era la vittoria di coloro additati come scomodi – a Palazzo, chiaro. E senza nemmeno tra le righe, lo diceva il grande Dino. Alla radio. A mezzo popolo. Altri tempi, altre persone. In campo e fuori.

IL LEGAME DEL SOLE Dicevamo di un legame. Perché questo anche il gemellaggio della terra meridionale, bagnata dalle acque del Mediterraneo. A Roma e a Napoli respiri quel profumo di salsedine che ti ricorda il mare. E le spiagge. Torre del Greco e Sperlonga. E i castelli di rabbia che si sgretolano nel sugo di pomodoro, sparso sulla pizza o nell’amatriciana. Che importa. Come possono essere così distanti le città del Sole? Il calcio non è guerra. Bombe carta. Petardi. Lacrimogeni. Le bandane insanguinate a coprire il mento. Formazioni a testuggine. Scene viste e riviste. Nauseanti. Come lo sport in preda a fazioni estremiste. Belliche. Roma non è il covo di assassini. E Napoli non è monnezza.
Ma volete mettere la curva Sud con i bandieroni a spezzare le nuvole o la curva A illuminata d’azzurro come il cielo? Ma cos’è il calcio senza coreografie. Senza curve. Senza colori. Senza il grido di battaglia soffiato nel corno.
E’ solo un gioco triste. Grigio. Senza passione. Ingabbiato in un calore glaciale. L’ossimoro di un mondo malato, cancerogeno.
Ma dico anche recuperabile.
Che torni allora a splendere il sole in città. Con il vento in poppa. Senza acqua. Ne pioggia, né lacrime. Il Vesuvio non laverà nessuno. Il Tevere non sarà la bara di alcun tifoso. Roma e Napoli, rivali sì, per sempre. Ma non nemiche. Stringerò la mano all’avversario. Lo applaudirò. Tornerò a casa dalla mia famiglia che mi aspetterà con un piatto caldo servito in tavola.
Vivo. Affinché il ghiaccio che separa me e te, si sciolga. Con il fervore, la foga, l’ardore di tutti noi. Persone, prima ancora che tifosi.

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